26 maggio 2014

Polpettoni e polpette


Polpettoni, polpette. Ed è tutto Mediterraneo
di Gabriella Molli



 Ogni volta che penso all'intelligenza della donna che ha creato polpettoni e polpette, mi viene in mente con quanta sapienza ha agito. Le carni dure andavano ammorbidite, la lunga cottura non sempre serviva. E allora dopo la lunga cottura (con dentro le erbe magiche che davano sapore e toglievano le “puzze” della carne), ecco il lavoro nel mortaio o dentro una pietra cava. Battere e girare, battere e girare...il primo polpettone è nato così e poiché, quando “ipotizzo” dei comportamenti gastronomici, trovo sempre sulla mia strada chi mi accusa di visionarietà, mi servo delle parole della Reay Tannahill per far capire come procedo: in assenza di documentazione da poter esaminare e studiare, faccio leva su testi, quindi come si fa all'università, sui libri. E, sulla linea che lei adotta, do una interpretazione del corso probabile degli sviluppi di un procedimento o di una situazione. 
 "Per certi periodi ho dovuto colmare alcuni vuoti della documentazione storica sulle informazioni disponibili, circa il CORSO PROBABILE DEGLI SVILUPPI: un metodo deplorato da molti storici accademici". tratto dal libro “Storia del cibo” (Rizzoli, 1973, pag 9)
Quindi ora posso proseguire. Polpettoni e polpette sono allineati sulla tecnica dello sminuzzare, in modo da rendere gli ingredienti di facile assemblaggio, procedimento spesso agevolato dall’aggiunta delle uova. Il polpettone con i fagiolini di Daniela è un vecchio piatto della cucina di casa spezzina e si allinea con la serie delle preparazioni che fanno leva sull’orto di casa. Molto spesso più fazzoletti di terra che orti. Ma provvidi per rendere variata e leggera la cucina del quotidiano. Per prima cosa voglio far riferimento a un’operazione che non si fa quasi più: adottare le mani come impastatrice dei vari ingredienti. Ci si affida al robot, ma l’azione delle dita è più leggera e ottimizzante. E’ la stessa operazione che le donne spezzine del primo Novecento ancora facevano per condire l’insalata. Provare per credere, ovviamente prese le adeguate misure igieniche. Questo non vuol dire che dobbiamo tornare indietro, ma solo che i mezzi attuali ci confortano nella fatica, ma non assolvono al compito massimo della osmosi fra le sostanze che ispirano i cibi. Qui si sfiora un tema profondo: quello delle energie.


Sui trucchi
Mia madre mi diceva che non salava i fagiolini perché hanno già il loro “sale”. Tanto un po’ di sale lo devi aggiungere quando impasti. Mi diceva. E qui il bisticcio è forte con quello che mi hanno detto dopo: il sale messo all’inizio salva il verde dei fagiolini. C’è un altro fattore su cui bisogna far leva: le cotture. E’ perfettamente inutile andare a comprare i fagiolini del giovedì al mercatino dei produttori magnifici della Val di Vara e, a casa,  metterli a cuocere dimenticando che la croccantezza se è indispensabile per gustarli in insalata, diventa assolutamente di rito nel “lessare” le verdure che dovranno entrare nel circuito del ripieno della cima (eh già, le mie vicine di casa di via Privata Cieli negli anni Cinquanta, in stagione,  mettevano i fagiolini anche nella cima, come li mettevano nel polpettone).
Il perché
La storia di non far lessare troppo i fagiolini sta nel fatto che, prima di tutto non dobbiamo permettere che i minerali e le sostanze proteiche finiscano nell’acqua scolata e quindi nel lavello. Poi perché come è nel caso del polpettone (o della cima) vuol dire farli sottostare a una cottura prolungata.
E ora una considerazione antropologica...
o quasi: il polpettone era considerato il piatto del lunedì. Vale a dire che veniva fatto con la carne del brodo della domenica, dove finiva quella che i livornesi chiamano “la carnaccia”: punta di petto, ossette, pezzi durissimi di carne, ammassi informi di nervetti. Tutto questo ovviamente è scenografia di una cucina di casa non borghese, dove la scelta era rigorosamente di prima qualità: tutta la carne veniva servita con una salsiera ricolma (per la gioia dei ragazzini) della famosa salsa verde spezzina.
Un’ultima annotazione di carattere antropologico: il polpettone del lunedì (e se non era polpettone erano polpette) vedeva accanto alle fette “sottili” ben allineate nel piatto oblungo, i famosi sottaceti della padrona di casa. Eh, sì, perché tutte le donne se li preparavano a settembre con cura maniacale. Poche usavano l’olio (non a diposizione di tutti) ma l’aceto, che fra l’altro insaporisce in modo aperitivizzante cipolline, cetrioli, peperoni, melanzanine genovesi, cimelli di cavolfiore, carote a bastoncino, e lascio alla fantasia delle donne quale altro elemento aggiungere. Io, per esempio, impazzivo per i sedanini, che mia madre smerlava con uno strumento.
C’è un perché in questo abbinamento
I sottaceti vanno mangiati con molto pane per neutralizzare il tono acido dell’aceto. Ma questa operazione risulta tremendamente buona e quindi assolve lo scopo dell’alimentazione del quotidiano: togliere la fame attraverso il gioco del gusto. Se non è intelligenza questa.   


  
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