13 maggio 2014

Il granturco nella mesc-ciua


Il granturco nella mesc-ciua, la cucina dei tempi di fame
di Gabriella Molli

Chi sa quanti faranno un balzo e grideranno: orrore! Ma è quanto ha raccontato una signora di Fabiano Basso, durante uno degli incontri predisposti dall'Ufficio Centri Sociali del Comune, anni fa in un mio progetto di ampliamento degli interessi degli anziani attraverso la cucina della tradizione. Progetto che ha riguardato dunque le tradizioni gastronomiche spezzine del passato, con particolare riferimento agli anni prima della guerra e durante. Ottanta sono le ricette raccontate e raccolte nei quattro Centri: Pitelli, Fabiano Basso, Melara, Mazzetta. “In casa mia – ha spiegato la signora di Fabiano Basso – anche il granturco veniva inserito fra i semi da mettere nella mes-ciua perché lo avevamo nei nostri orti di Campiglia. Il grano invece doveva essere acquistato, costava molto e mancavano i soldi, ma l’accostamento del granturco con i semi canonici (cannellini, ceci) era davvero buono”.

Mesc-ciua dissacrata ? No davvero: il racconto conferma l’ipotesi che questo piatto era un “ammazzafame” nato come cibo i cui ingredienti erano legati al QUI e ORA e ai semi che si avevano a disposizione. E forse quando non c’erano, è giusto ipotizzare che le donne andassero a cercarseli nella polvere del porto, come vuole la leggenda metropolitana della mes-ciua.
Cosa è successo nel dopoguerra? La mes-ciua ha assunto caratteri diversi: infatti dal dopoguerra in poi è diventata regina di solo tre elementi (cannellini, grano e ceci). Ormai questa consuetudine gastronomica dei tre semi si è affermata e tutti si sono adeguati, ma le conversazioni nei quattro centri hanno però evidenziato un’altra novità: “Noi nella mes-ciua ci mettevamo anche un pugnetto di borlotti e di cicerchie – è emerso in un incontro tenuto a Pitelli – e quando non c’era grano nella madia non avevamo soldi per comprarlo, per noi era mes-ciua lo stesso. Così, solo con borlotti e cicerchie, senza il grano”.
In tutti e quattro i centri è stato confermato l’ammollo separato di tutti i semi: due notti per i ceci, una notte per grano e cannellini (il farro era quasi introvabile, il grano saraceno quasi sconosciuto), cotti in modo e tempi diversi e poi ricomposti in un unico brodo per lo scambio (osmosi) dei sapori. Alcuni semi (in particolare i ceci) venivano cotti con cipolla, sedano e carota, che finivano “passati”. Il brodo di composizione della mes-ciua non era dunque affatto limpido. Altra novità raccontata: la mes-ciua veniva servita il giorno dopo, perché tutti i sapori si amalgamassero meglio, dicevano le donne.

Oggi c’è la tendenza a snellire i procedimenti di preparazione mettendo a bagno tutti i semi insieme, mettendo un pizzico di bicarbonato per agevolare la cottura e nessuno si straccia i capelli se arriva sul tavolo una specie di brodaglia trasparente in cui navigano gli amati semi. Ma l’antica mes-ciua del tempo passato, doveva essere un ottimo ammazza fame, sapiente e gustoso, c’era soltanto quello in tavola e la fame era tanta. Quindi nella mes-ciua finivano pezzetti di pane secco e se dentro un filino d’olio formava una specie di “ci”, che piacere. E c’è di più. Poiché i ceci hanno una specie di pellicina, venivano spesso “passati” come si faceva con i legumi del minestrone. La mes-ciua che diventava pannosa e densa era la preferita. 

Il lavoro condotto nei quattro centri sociali del comune capoluogo è servito proprio per capire come-cosa si mangiasse nell'anteguerra (e durante), e tutti (dico tutti) hanno parlato di fame nera e di quanto fu difficile sopravvivere. Ma nei racconti è emersa l’intelligenza della donna spezzina che si serviva dei pochi elementi a disposizione con la stessa finalità del convivio: nutrirsi e star bene. Poco nel piatto e mangiato lentamente, ma con la coralità della tavola, non importava se per cena c’era solo la “Begò”. E’ comparsa infatti nei racconti anche la grande frittella dal nome dimenticato: “begò” (acqua-farina-sale). Parliamo tanto di Testaroli e Panigacci e non ci ricordiamo di questa rotonda frittella cotta in due gocce d’olio, che era festa grande se veniva servita con gli erbi dei campi o i cavoli neri; festa ancora più grande quando veniva sfilettata sopra la parte bianca dei cipollini dell’orto. E quella verde che fine faceva? Serviva per una frittata o per fare il minestrone. Mentre oggi un “tac” pauroso del verduraio la taglia con il coltellaccio e finisce nella pattumiera. Fra l’altro, hanno raccontato, i cipollotti dell’orto venivano tenuti a bada con il fucile. La fame faceva venire tante tentazioni notturne. Una donna ha raccontato invece che vedeva ingrandirsi gli occhi dei bambini ammassati vicino alla rete, quando sua madre raccoglieva i cipollotti. Dobbiamo per forza definirla cucina povera, quella degli anni ’30-’40? 

Nel quartiere di Mazzetta è emersa una ricetta di “ravioli poveri” con il ripieno fatto di sole bietole raccolte nei campi, unite a pane cotto nel latte, a un uovo, e quando c’era, un po’ di Parmigiano (le cui croste filiformi erano la base di un brodo saporito e a chi ne toccava un pezzetto veniva guardato con invidia) grattugiato, ma non poteva mancare il timo. Come nascevano i ravioli poveri alla spezzina? Si faceva una sfoglia sottile sottile e via, si procedeva come per fare i “ravioli ricchi”.
Chiamiamola dunque cucina del caso o della necessità, ma non povera, la cucina spezzina degli anni ’30 -‘40. Gli incontri che ho tenuto nei centri sociali hanno dimostrato con quali strategie le donne del tempo di guerra potevano dire con orgoglio e a testa alta: oggi ho fatto i ravioli; e tra l’altro le donne lavoravano a coltello, con un risultato molto più gustoso rispetto a quello fornito oggi dai vari mixer.






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