23 gennaio 2015

Mescia, Mes-ciua, Misciuia


Mescia,  Mes-ciua, Misciuia
di Gabriella Molli

Stuzzicata dalla ricetta della mescia chiavarese di Daniela, voglio parlare di tre parole che si somigliano molto: Mescia, Mes-ciua, Misciua. Chiavari - La Spezia - Tunisi. E’ un argomento che ho trattato altre volte e che mi richiama anche un evento multietnico di Slow Food, organizzato in piazza Brin e dedicato a un piatto nordafricano molto in uso durante il Ramadan: la harira.
Mescia chiavarese, mes-ciua spezzina, misciuia hanno in comune una specie di vicinanza labiale per la pronuncia, ma non solo, Sono indicatori di cucine nel Mediterraneo. Mes-ciua e harira quanto hanno di comune? Parliamo prima di questo, perché con l’attentato di Parigi, stiamo vivendo un momento molto angosciante, che dobbiamo in qualche modo elaborare. Le radici comuni di fatti gastronomici forse sono un buon mezzo. Vediamo cosa ho scritto in occasione dell’evento di piazza Brin.
‘Una piazza storica post-Arsenale (piazza Brin) è stata scelta da Slow Food Golfo dei Poeti-Cinque Terre-Val di Vara-Riviera Spezzina per una riflessione conviviale sul fronte comune di due indicatori gastronomici, che apparentemente nati in ambienti molto lontani del mare nostrum, si ritrovano poi nelle preparazione quasi affini: mes-ciua e harira.  L’ambientazione è quella del Comera, alloggiato alla base dell’imponente palazzo umbertino con cui la piazza si chiude verso mare.
Le grandi pentole di alluminio (molto usate) offrono già un’atmosfera da cena in famiglia. La mes-ciua si presenta nella formula di zuppa che ci ha consegnato la pratica di cucina spezzina degli ultimi vent’anni: ceci, cannellini, grano. Ma non esisteva una formula gastronomica unica: andando verso Sarzana cambiano gli ingredienti, subentrano i fagioli borlotti e la cicerchia (tanto cara agli Etruschi). La harira ha un aspetto più concentrato. Secondo un uso marocchino, come vuole la tradizione di casa della giovane donna mediterranea che l’ha fatta, vede la presenza dei fidellini e delle lenticchie. Un gioco proposto da Gabriella Tartarini, membro della condotta, è centrato sulla scelta fra le due “zuppe” e come è d’obbligo per le cene culturali di Slow Food, si va dentro il piatto. Dentro la sua storia, dentro le coordinate sociali che ne formano l’impronta. Si va, insomma, alla ricerca delle orme biologiche di ognuno dei due piatti. Nasce subito l’esigenza di collocare l’harira come precedente esperienza gastronomica, rispetto alla mes-ciua. La stessa analisi della storia dei semi e dei legumi ci informa che c’è un passaggio dei prodotti arrivati fino a noi dalla fertile Mezzaluna, di almeno duemila anni. Gli stessi Romani che si sono serviti del grande granaio africano, devono le loro puls a esplorazioni di culture gastronomiche già affermate. Ancora gli stessi Romani si sono rivolti a cuochi greci per risolvere i loro problemi di cucina evoluta, arrivata a noi nel 1300 con i testi scritti di Apicio. Nonostante la diversità di composizione i due piatti parlano lo stesso linguaggio: i fondamenti alimentari tendono a forte similitudine di accostamenti. I semi (escludendo i cannellini che sono post-colombiani) fanno parte di un retaggio che ha un forte valore simbolico: la ricerca del benessere prima di tutto, e poi quelle note di propiziazione alla madre-terra che di solito fa parte di rituali di cucina della donna ai primordi della vita. Lo stesso procedimento dell’acqua calda in cui i semi vengono cotti, risale a esperienze di “caso e necessità”, come direbbe Maurizio Sentieri.
L’evoluzione dei piatti parte sempre da una metodica femminile. Alla donna raccoglitrice era chiesto quel compito di nutrire a cui non ha abdicato fino al momento in cui l’uomo è entrato in cucina, relegandola a un ruolo minore e accessorio. E poiché, per dirlo con Montanari, “il cibo è cultura”, ecco apparire nei due piatti, una forte impronta sociologica. L’harira è piatto che non manca mai durante il Ramadan e che profuma le strade in attesa della fine del digiuno giornaliero (Vincenzo Capretti). Felice combinazione di semi (le lenticchie e i ceci in particolare) viene preparata in varie versioni (ogni testa di donna concepisce la sua, più o meno ricca di sapori, a cui non manca mai quello della cannella). E sulla cannella occorre ricordare che “spezia divina”, richiamava la potenza dello yang (il maschile, il cielo, l’asciutto, l’attività”. E serviva per allontanare i fantasmi delle malattie, dei demoni. La mes-ciua, che molti vogliono nata nel porto, raccogliendo le granaglie sfuggite ai sacchi, è verosimilmente più un piatto di fine primavera: prima del nuovo raccolto le scorte dovevano essere usate per evitare la crescita e l’invasione degli “intrusi” (Giorgio Taborelli). Sullo stesso nome mes-ciua che molti vogliono derivato da mescolanza di semi, c’è una versione allineata su una matrice mediterranea. Esistono anche in Tunisia le “mishiua”, mescolanze di carne o di verdure. Tutto questo fa parte di una storia comune, molto ben analizzata da Adelchi Scarrano. Insomma esiste una grammatica della cucina mediterranea che accomuna mes-ciua e harira. Siamo più “fratelli” di quanto pensiamo e la cena inter-etnica dello Slow Food in piazza Brin ha assegnato un “indice di bontà” alla harira’.
In tempi come questi, di grande paura per l’opposizione violenta di religioni, forse queste discussioni, non sono oziose. A tavola c’è qualcosa che unisce. I gruppi violenti non riusciranno a distruggere questa ‘unità’. E ora proseguo sul distinguo mescia-mes-ciua-misciuia.
Durante Archeologica, evento dell’aprile 2013 al castello San Giorgio, mi sono occupata di mescia (ricordo che si pronuncia mescià). Scrissi allo studioso chiavarese Giorgio Getto Viarengo per conoscere dati storici sulla mescia. Ecco la sua risposta.
Si tratta di uno dei tanti, oggi diremmo piatti, della cultura contadina più arcaica. E' assolutamente la stessa storia della vostra mesciuia, ma da noi si pronuncia mescià. Nei rapporti e nei censimenti più antichi troviamo la semina dei cereali, in particolare semina promiscua, alternata nelle stagioni; i cicli di semina seguivano le necessità alimentari e i legumi si articolavano con tempi e possibilità di conservazione maggiori. Da noi, nel Tigullio, la mescià è preparata tutto l'anno e servita con dei componenti aggiuntivi, in particolare il cavolo in tutte le sue espressioni di coltivazione e raccolta. Questo piatto, una zuppa, permetteva di dare dei buoni carboidrati con ottime proteine (cereali e fagioli, ceci) un piatto completo e ricco. L'aggiunta di una parte verde, il cavolo, poteva essere intrepretata con altre erbe, in questa stagione dal Prebugiùn.
Con la Dott. Elisabetta Starnini (soprintendenza Archeologica della Liguria) abbiamo tenuto diverse conferenze sul tema, cercando di presentare un nesso tra la cultura contadina più legata a micro territorio e l'archeologia. I risultati sono piuttosto ben leggibili”.

Nel caso di mescia-mes-ciua-misciuia si tratta di grande territorio, separato fra l’altro dal Mare Nostrum, come i romani chiamavano il Mediterraneo. Ma di quasi identiche tecniche di ‘mescolanze’, si tratta. Il mettere insieme, il legare i prodotti di un luogo per ottenere un’alchimia perfettamente in linea far cielo e terra. Traendo dalla terra, quindi, quei prodotti che ne fanno, con un termine moderno, cibo interattivo per il corpo e per l’anima.   




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